Costume e cultura

«Il Ponte», a. XIX, n. 11, Firenze, novembre 1963, pp. 1440-1443.

COSTUME E CULTURA

Cari amici,

ritengo che debba interessare al «Ponte» e ai suoi lettori questa mia pubblica precisazione di fatti in merito ad un caso che getta luce su certi aspetti di certo costume accademico e letterario.

Alieno dal gusto della polemica personalistica e abituato piuttosto a rispondere, per quel che piú strettamente mi riguarda, con nuovo lavoro e con un assiduo impegno nella mia attività di insegnante, di studioso e di militante socialista, ho preferito questa volta intervenire pubblicamente sia perché il caso investe questioni generali di costume civile e culturale sia perché desidero cosí distinguermi nettamente dalla ridda di pettegolezzi privati e cenacolari che su questo caso fioriscono abbondantemente non solo a Firenze.

Una Facoltà, precisamente la Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze, cui io appartengo, dovendo decidere sulla sorte della cattedra di storia dell’arte, resa libera perché il titolare, Roberto Longhi, aveva raggiunto i limiti di età, ha deciso, con larga maggioranza, di chiamare il professor Roberto Salvini, dopo una discussione serena e pacata, durante la quale il titolare uscente aveva molto equilibratamente esposto le qualità dei due concorrenti (il Salvini e Cesare Brandi), da lui posti su di un pari piano di dignità, pur pronunciandosi chiaramente a favore del secondo.

Poiché nelle facoltà universitarie non vige un diritto successorio di tipo ereditario e l’indicazione del titolare uscente non è che un elemento fra i molti che i membri di un consiglio di Facoltà prendono in considerazione, non vi è dubbio che la Facoltà di Firenze ha, nella sua scelta, esercitato un proprio diritto assolutamente incontestabile.

Può essere comprensibile che il Longhi sia rimasto amareggiato e dispiaciuto della decisione della maggioranza della Facoltà e del fatto che da parte di questa, pur con valutazioni comparative motivate da vari interventi e da una relazione di cui io fui il lettore (dichiarando che essa era stata concordata con altri colleghi), non sia stato accettato il suo giudizio. E poteva essere comprensibile che egli (o subito dopo la votazione del giugno scorso, o dopo quella ripetuta in ottobre per un vizio procedurale della precedente) avesse espresso pubblicamente il suo disappunto e magari osservazioni critiche sia su quella scelta sia sulla prassi di chiamata universitaria.

Appare invece assai dubbio che il metodo da lui scelto per dare espressione al suo stato d’animo e al suo pensiero in proposito, possa essere accettato e considerato all’altezza del suo valore scientifico che nessun risentimento mi porterebbe certo a disconoscere, ma che anzi induce tanto piú a stupirsi della sua scelta di una diversa linea di condotta: a parte il fatto che l’avermi considerato come il principale responsabile della chiamata del Salvini significa attribuirmi un potere che non ho e ridurre immeritatamente la pienezza consapevole della scelta fatta da altri ben dodici colleghi tutti pienamente autorevoli alla pari di quelli che, questa volta, si sono trovati in minoranza.

Il Longhi è direttore, come è ben noto, di una rivista, «Paragone», della cui redazione (per i fascicoli letterari) faceva parte Giuliano Innamorati che è pure collaboratore della mia rivista. «La rassegna della letteratura italiana», e mio assistente straordinario.

Orbene, subito dopo la prima votazione il Longhi invitò l’Innamorati a cessare ogni rapporto di lavoro con me, a dimettersi da mio assistente: senza considerare oltretutto il danno che all’Innamorati cosí derivava nella sua attività professionale. L’Innamorati decise invece di dimettersi dalla redazione di «Paragone». E, piú tardi, in rapporto con le sue dimissioni, altri due redattori della rivista, Giorgio Luti e Cesare Vasoli, inviavano anch’essi una lettera di dimissioni al Longhi. Ma questi non dava loro risposta e manteneva i loro nomi nella redazione nell’ultimo fascicolo della sua rivista, dove pubblicava, in apertura, un articolo, a firma di Aldo Rossi (altro suo redattore nonché assistente volontario nella Facoltà di Lettere), e intitolato Storicismo e strutturalismo.

Quest’articolo non è solo una goffa e presuntuosa presa di posizione contro la critica storicistica (con implicazioni di metodo non solo critico che certo il Luti e il Vasoli non avrebbero comunque potuto condividere, dato il loro orientamento critico e ideologico, mentre, mantenendoli, contro la loro volontà, nella redazione, il Longhi li rendeva corresponsabili e della impostazione e del «resto»), ma sostanzialmente ha il suo centro in una presentazione del mio recente volume laterziano, Poetica, critica e storia letteraria (e di tutta la mia attività e personalità di studioso e di critico), che non può configurarsi come una critica obbiettiva, ma come una deformazione ridicolizzante e denigratoria, indegna di una discussione e di un dialogo, validi solo e possibili solo fra interlocutori dello stesso livello di serietà (non dico affatto di autorità!). E non è certo per discutere con l’estensore dell’articolo che io mi sono deciso a scrivere questa lettera: troppo egli si qualifica e si giudica da sé, con le sue stesse pagine.

Scrivo invece questa lettera per illustrare tutto un caso e una serie di azioni che riguardano il professor Longhi e la sua linea di condotta nei miei confronti e nei confronti di una vicenda che doveva essere da lui considerata in tutt’altra maniera.

Naturalmente si potrà anche sostenere che tale articolo (di cui comunque un direttore di rivista non può non condividere le affermazioni e il tono) è caduto entro le circostanze sopra esposte per pura coincidenza. Si potrà anche sostenere che esso è solo l’espressione dei maturati pensamenti del suo estensore, rapportati alla mia persona solo dall’uscita del mio volume, di cui la rivista non poteva non occuparsi per i suoi doveri di informazione e discussione critica. Si potrà sostenere che post hoc non è propter hoc, che in quell’articolo si parla anche di un altro studioso, il Baldacci, reo anche lui di storicismo e condannato insieme a me per istituire un gioco a contrasto – di un’arguzia che rinuncio a qualificare – sulla mia «gerontofilia», sul mio mito del «poeta vecchietto» e sul suo mito del «poeta giovinetto», suggeritici da certe preferenze del nostro «inconscio».

Sta di fatto che la pubblicazione dell’articolo, con quel tono, con quella volontà deformatrice, è avvenuta al termine della serie di azioni sopra ricordate. Sta di fatto che a quella pura coincidenza non hanno creduto i redattori dimissionari di «Paragone», che hanno voluto ribadire la loro estraneità all’articolo e alle sue ragioni e ricordare pubblicamente la precedenza delle loro dimissioni, con due lettere a me dirette, che allego in fondo al mio scritto, con il loro pieno consenso e dopo che essi hanno preso visione di queste mie pagine.

E che invece la sua pubblicazione, adesso, possa interpretarsi come un episodio di quella forma di guerra accademica e letteraria che tanto nuoce alla serietà della nostra cultura universitaria e non universitaria, sembrerebbe indicarlo qualche altro fatterello recente. Per esempio: il fatto che la rivista di Parma, «Palatina», ha rifiutato una recensione (prima di averla letta) al mio ricordato volume – e dopo averla inizialmente accettata – per non prender posizione a favor mio e, non già contro l’estensore dell’articolo di «Paragone», ma contro il Longhi.

Sicché adesso di me non dovrebbe parlarsi per non dispiacere al Longhi, o forse se ne dovrebbe parlare solo nei termini dell’articolo di «Paragone». Le conclusioni del caso le lascio ai lettori obbiettivi e non prevenuti.

Al di là del caso (e addirittura fuori di esso e delle sue interpretazioni) una situazione piú generale può suggerire alcune osservazioni valide soprattutto per chi, come è il caso certamente del «Ponte» e dei suoi lettori, guardi con naturale preoccupazione al costume culturale e letterario, specie in rapporto ad esigenze di rinnovamento caratteristiche della nostra cultura piú avanzata.

Anzitutto molto chiara e diffusa è l’impressione che in certi settori della nostra cultura si facciano prevalere ragioni di prestigio, di tattica personalistica sulle sole ragioni valide della discussione seria e della informazione critica ispirata a ragioni generali e a precise impostazioni culturali. Costume aggravato (il discorso potrebbe qui allargarsi di molto e penso che ciò possa oramai essere considerato urgente e doveroso) da pericolosi equivoci spesso anche da parte di chi, nella tensione a una nuova cultura, inseparabile da un costume serio e rigoroso, accetta e stringe, per una malintesa politica della cultura, alleanze di comodo con ambienti e settori di tipo chiaramente snobistico, da cui non ci si possono attendere discussioni serie e costruttive, anche se profondamente polemiche, ma solo prese di posizione pretestuose e avventate, al cui fondo è un sostanziale disimpegno ideologico e culturale, un gusto frivolo, che può, a volte, combinarsi con forme di puro tecnicismo, ma non certo con impostazioni etico-politiche che mirino a una funzione profonda e rinnovatrice della cultura.

E ugualmente ben vivo è in molti, e specie nei giovani migliori, il disgusto per un’antica malattia degli uomini di cultura e dei letterati che si ripropone alla nostra attenzione anche al di fuori, ripeto, di ogni caso particolare: la scarsa corrispondenza fra valore d’ingegno e adeguato costume, la valutazione dell’ingegno in chiave di semplice potenza mondana.

E si potrebbe raccogliere un’amarissima antologia dei lamenti e dei giudizi in proposito da parte degli uomini piú nobili e veramente rinnovatori della nostra tradizione culturale e civile. Ricorderò almeno il grande Genovesi che deprecava la separazione fra ingegno, cultura e qualità etiche (quando per lui la stessa cultura diventava solo «arma di offesa») e il grande De Sanctis, che, in una lettera del ’53, al Villari, cosí si esprimeva su questo tema dolente: «Si esalta di soverchio l’ingegno, e non già come una virtú, cioè a dire, un istrumento di bene, ma per quella stessa ragione per la quale s’idolatrava la forza brutale; l’ingegno è adulato perché è una potenza». E soggiungeva, nel ’54, sempre al Villari: «Gli uomini adorano l’ingegno non per la parte divina che è in esso, ma perché è una forza che può far bene o male: ci si inchinano come innanzi al cannone e stimano quello che temono». Parole moralistiche e ingenuamente romantiche? Eppure anche per questo il De Sanctis fu un grande, un vero grande maestro di critica e di cultura. E se una di quelle lettere si concludeva con l’esortazione dell’autore a se stesso e all’amico ad «essere buoni» e a ««coltivare l’ingegno per render piú efficace la virtú», certo il suo «essere buoni» non significava sottostare alle ingiustizie e alle offese specie quando queste toccano e lacerano il delicato tessuto della vita civile e culturale. E se queste offese possono apparire, alla fine, certe volte, pur piccole di fronte a fatti pubblici tanto piú gravi, esse tanto piú sono insidiose e vanno combattute e denunciate specie da chi guarda ai giovani, alle forze nuove e non ancora deformate, e tanto piú si preoccupa dell’esempio che loro vien dato dagli uomini di cultura.

Con i piú cordiali saluti.